Quattro Passi fra le Botti

All’inizio del 1700, gli abitanti delle colonie inglesi del Nord America bevevano molto e bevevano soprattutto rum. In parte lo importavano dai Caraibi, in parte invece lo producevano in loco con la melassa importata dai Caraibi. Il rum prodotto localmente era considerato di minor qualità e costava meno; eppure, scrive nel 1702 il mercante di Filadelfia Isaac Norris, “Penso che abbia solo bisogno di invecchiare per avere un buon sapore ed è abbastanza forte”.

Questa lettera è la più antica traccia che ho trovato della consapevolezza che invecchiando il rum diventa migliore. Perché sul rum è stato scritto molto, ma, per quando ne so, un seria ricerca sulla storia dell’invecchiamento non è ancora stata fatta. Eppure l’argomento è interessante, molto.

Per adesso, è bene intanto  ricordare che appena distillato tutto il rum è bianco, come del resto tutti gli altri distillati. E che per secoli, il rum veniva consumato subito dopo la produzione, bianco. La botte era semplicemente in contenitore in cui il rum, come quasi tutte le altre merci, era trasportato.

E’ difficile per noi moderni renderci conto di quanto erano lunghi i viaggi all’epoca della vela e dei cavalli. Dalle piantagioni dei Caraibi alle taverne europee, il rum passava lunghi mesi nelle botti e probabilmente qualcuno si accorse presto che il rum arrivava migliore di come era partito. Ma la pratica di invecchiare coscientemente il rum per migliorarlo è relativamente recente. Ha radici nella seconda metà del ‘700, ma probabilmente fiorisce commercialmente solo un secolo dopo, verso la fine dell’800, prima a Cuba, pare,  e poi altrove.

Oggi invece nel mondo del rum si parla molto di invecchiamento. Sembra che senza invecchiamento non ci sia qualità, molte aziende lo mettono al centro delle loro campagne di marketing e gli anni scritti in etichetta sono spesso decisivi nelle scelte della maggioranza dei consumatori. Semplificando un po’, l’opinione comune è che più un rum è invecchiato, più deve essere buono e costare caro. Ma è davvero così? Oppure le cose sono diverse ed un po’ più complicate.

Ma, prima di tutto, che cosa è esattamente l’invecchiamento del rum, e di ogni altro distillato? Come cambia veramente il rum dentro la botte?  In estrema sintesi, l’invecchiamento è il periodo di tempo che il distillato passa nella botte di legno, prima dell’imbottigliamento. Con l’imbottigliamento il processo di invecchiamento del rum finisce. E durante questo periodo, fra il distillato, il legno della botte e l’aria esterna avvengono una serie di reazioni chimiche che ne modificano il colore, l’aroma ed il sapore.

Ma, tutte le botti sono uguali? Oppure contano il tipo di legno, l’età della botte, le sue dimensioni ecc. E quando qualcuno parla di Tropical Aging, cosa vuol dire?

Alla fine del processo, la composizione chimica del rum invecchiato è sommamente complessa. Il rum è una miscela di più di duecento componenti. E’ composto soprattutto di alcol etilico ed acqua, ma questi ultimi non sono responsabili dell’aroma e del sapore. Questa funzione ricade sui componenti minoritari o congeneri. Bene, fin qui ci siamo, ma forse è utile ed interessante saperne qualcosa di più.

Un’altra domanda: Sempre a proposito dell’invecchiamento, della qualità e del costo di una bottiglia,  dobbiamo sempre fidarci dei numeri che campeggiano nelle etichette? Forse no, forse è meglio essere prudenti, magari anche un po’ diffidenti e cercare di capire che cosa veramente vogliono dire.

Inoltre, da alcuni anni appaiono sempre più spesso in etichetta parole come Single Barrel o simili. Al di là delle seduzioni del marketing, che cosa vuol dire esattamente?

E forse sarebbe anche bene capire cosa significa dire che un rum è “terminato” in botti diverse da quelle in cui è stato invecchiato e spesso anche in Paesi diversi.

E ancora, ormai Solera è una parola che appare sempre più spesso sulle etichette. Solera, o Sistema Solera o anche metodo solera, è un metodo tradizionale di invecchiamento nato in Spagna per invecchiare i vini di Jerez che poi è stato usato anche per pochi rum particolari. Da qualche anno è invece molto diffuso, soprattutto per i rum prodotti in America Latina. Ma di che cosa si tratta veramente?

Ultimo, ma non meno importante, quali sono i costi ed i rischi dell’invecchiamento per il produttore? Perché è bene sapere che, per il produttore, invecchiare a lungo un rum è costoso, laborioso ed anche molto rischioso.

Marco Pierini

PS: ho pubblicato questo articolo in occasione del Rum Day 2018, tenutosi a Milano. Per saperne di più visitate www.therumday.it

Alle origini della liquoristica italiana: l’Aqua Vitae Composita

Un tipo particolare di acquavite composta, che ebbe grande successo fra i più ricchi, era l’ Aurum potabile –  “Oro potabile” – cioè oro in forma di barrette, lamine o limatura  che si manteneva in infusione nel vino fino a distillare il tutto più volte, pensando (illudendosi) in questo modo di estrarre tutte le virtù medicinali della preziosa sostanza e trasferirle al liquore. Un rimedio, in definitiva, molto potente: l’obiettivo era quello di preservare il corpo dalla corruzione del tempo.
Con gli anni l’uso di bere acquavite si diffonde e il primo vero e proprio trattato ad essa dedicato è plausibilmente quello che il medico ferrarese Michele Savonarola – avo del più noto Fra’ Girolamo – scrisse poco prima del 1450: il “Libreto de aqua ardente”.

Savonarola spiega come, per fare della buona acquavite, ci vogliano vini nuovi, buoni, forti e quindi costosi. Spesso però la sostanza non manifesta i suoi benefici effetti poiché i proprietari e gestori dei terreni la producono con i loro vini peggiori o deteriorati:  “Se po comprehendere che l’aqua ardente non ha molte vuolte li soy effecti e le vertude proprie. La caxone de questo a la materia, zoè al vino, se de’ attribuire; ma più a li rectori e offittiali de le terre, li quali, per le proprie fazende, ne la salute e sanitate di soy citadini negligenti sonno, che in tanta divina cossa non ànno cura, odendo che de li vini marzi e aquadi da li artifici facta è l’aqua ardente.”

Savonarola descrive l’impegno e la complessità tecnica necessaria per una buona acquavite, mentre purtroppo al mercato il prodotto si vende ai poveri a basso prezzo: “Ma penssa ti e considera, che, e qualle, e chomo facta è l’aqua ardente, la qualle in piaza se vende a le povere e miserabelle persone”. A volte qualcuno ne beve troppa e si ubriaca: Savonarola consiglia moderazione, ma non è chiaro quale sia la quantità giusta, forse una “onza” (circa 30 grammi) al giorno, ma non lesina racconti su chi ne ha bevute tre – quattro al giorno per molti anni: a suo dire… senza danni, anzi vivendo a lungo.

Non mancano inoltre alcune parole, spese in uno specifico capitolo, riguardanti l’acquavite composta: “… la qualle composita è nominata, imperò che facta è con coniunctione d’altre cose”, il cui consumo eccessivo fa male non solo al corpo, ma anche “al cervello e a nervi fa grande nocimento, e l’omo perduxe al spasmo, e fa impacire.”

Nel Cinquecento si stampano ormai numerosi libri ed entrano in funzione molte distillerie, sparse un po’ in tutta Italia. Ogni corte ha la sua e si beve per il piacere, non più per curarsi. Aumenta anche il numero e la varietà dei prodotti: l’acquavite composta lascia il posto a veri e propri “liquori” di ogni genere. A Firenze, la Fonderia Medicea di Palazzo Pitti è all’avanguardia e – quando Caterina de’ Medici nel 1533 sposa a Parigi il futuro re Enrico II – i francesi scoprono le virtù dei liquori fiorentini, già all’epoca serviti alla fine del pasto, in particolare del “rosoglio”. E con la lunga reggenza di Caterina si diffonde l’uso di bere liquori, per lo più importati.
D’altronde… “ La consommation générale est le fait d’un commerce dans lequel les Hollandais ont tenu una grande place. La consommation plus raffinée est le fait des Italiens essentielments.”

Marco Pierini

PS: ho scritto questo articolo in occasione dell’evento Aperitivi&Co Experience che si è tenuto a Milano nel marzo 2018.

Alle Origini della Liquoristica Italiana: un Viaggio che parte da Salerno

Racconta la leggenda che a Salerno, nell’Alto Medioevo, si incontrarono quattro maestri della medicina: Helinus, Adela, Pontus e Salernus – un ebreo, un arabo, un greco e un salernitano: insieme fondarono la  Scuola Medica Salernitana, la prima grande istituzione medica dell’Occidente medievale. Anche la vicina abbazia benedettina di Montecassino dette il suo contributo e nel IX secolo la Scuola era già famosa: da tutta Europa i malati accorrevano a Salerno per curarsi… e i medici per imparare.

È proprio a Salerno che, attorno al XII secolo, inizia il cammino dell’alcol in Occidente. Alcol che, probabilmente, era già stato scoperto distillando il vino dagli alchimisti arabi e alessandrini: erano però rimaste esperienze isolate, chiuse nei laboratori degli alchimisti, spesso segrete. A Salerno, invece, la nuova sostanza viene usata in medicina: sia pur lentamente ed in circoli ristretti, l’alcol comincia pian piano a diffondersi.

Il vero salto verso la fama, però, arriva attorno al Duecento; un po’ più a Nord, nell’Italia dei Comuni, in particolare a Bologna. I progressi tecnici permettono un’efficace raccolta /  condensazione dei vapori dell’alcol etilico e una nuova mentalità concreta e razionale sa farne buon uso. A Bologna, all’ombra dell’Università, medici, alchimisti e filosofi fanno esperimenti con questa curiosa sostanza, incolore come l’acqua, ma che brucia, risana e conserva: un’ acqua meravigliosa. E le raccontano nei loro libri. Per un po’ non sanno bene come chiamarla, poi un nome appare: Aqua Vitae, Acqua della Vita, a volte detta anche Ardens, ardente.

Aqua Vitae è il nome con cui si diffonde e da cui derivano il francese eau de vie, il tedesco aquavit, lo scandinavo akvavit ed anche il gaelico uisgebeatha, poi diventato whisky. E fin dai primi passi, si distinguono due tipi fondamentali: aqua vitae simplex fatta di solo vino distillato e aqua vitae composita dove al vino distillato vengono aggiunte piante, radici ed erbe  medicinali di ogni tipo.

Vediamo cosa scrive il grande medico Taddeo Alderotti attorno al 1280:  “Di acquavite, ce n’è una semplice e una composta. La semplice è quella che, senza mescolanza di alcuna cosa, semplicemente si estrae dal vino ed è chiamata anima del vino. Assume le proprietà di tutte le erbe – eccettuate soltanto le viole – fiori, radici e spezie, se rimangono per tre ore in essa. L’acquavite composta si combina con spezie, radici, fiori ed erbe, secondo l’esigenza e la convenienza di ciascuna malattia. La sua dose, in bevanda, sia da una dramma fino a due. E la dose si accresca e si diminuisca secondo il vigore del paziente.”  (una dramma bolognese dell’epoca era circa 3,75 grammi).

È una cura efficace contro quasi tutte le malattie del corpo, ma non solo. “Contro la malinconia e la tristezza: ogni mattina mezzo cucchiaio, a stomaco digiuno, preso con un bicchiere di vino profumato, rallegra, rende ilare e giocondo … Con l’acqua predetta, fatta così, il paziente corregga il suo vino, ogni quattro giorni. E dell’acqua ardente ne beva ogni giorno un cucchiaio, mattina e sera, continuamente fino ad un anno.”. Così ci ricorda Alderotti, specificando come, inoltre, sia in grado di migliorare il vino poco buono o deteriorato.

Se dunque l’aqua vitae simplex è l’antenata dei moderni distillati quali grappa, brandy, whisky, ecc. possiamo a tutti gli effetti dire che l’aqua vitae composita è la madre di liquori, amari, aperitivi, digestivi e corroboranti.

Le ricette erano numerose, perché la farmacopea medievale si basava moltissimo sulle piante, le erbe e le radici del mondo naturale, ma i modi per produrla erano basicamente tre. Nel primo caso si univano direttamente le erbe al vino, distillando poi l’insieme. In un secondo, prima si distillava il vino da solo e poi vi si mettevano in infusione le erbe desiderate. Infine, in un terzo caso l’aqua vitae simplex e le erbe venivano messe insieme nell’alambicco, distillando nuovamente.
Inizialmente l’acquavite composta è un medicinale piuttosto caro: i medici prescrivono di berla (e/o di spalmarla) sulle parti malate. Poi, grazie anche all’impegno degli alchimisti francescani, si fa strada l’idea che la novità debba essere alla portata di tutti, un toccasana per mantenere in salute e “rinviare” la vecchiaia. Si beve soprattutto acquavite composta perché le erbe medicinali potenziano, si crede, gli effetti farmacologici (oltre ad avere un gusto più gradevole).
Così si giunge al 1348, quando compare la Peste Nera – uno dei più grandi flagelli della storia – e, in seguito, altre epidemie minori, ma comunque terribili, continuano ad imperversare in tutta Europa: i medici, quasi impotenti, consigliano alla popolazione terrorizzata di bere acquavite ogni giorno, per prevenire la malattia oltre che per curarla.

Passo passo, di questa medicina si cominciano ad apprezzare anche altre virtù, fino a giungere veramente molto vicini ad una tipologia di consumo di puro piacere: “La sua bontà agisce non solo nel corpo, ma anche nell’anima: infatti fa dimenticare la tristezza e l’angoscia, provoca allegria e rinfranca l’intelletto quando si dedica alla ricerca di cose difficili e sottili, dà coraggio, aiuta a sentire meno il dolore e la fatica, ed ha molte altre proprietà di questo genere.”

Marco Pierini

PS: ho scritto questo articolo in occasione dell’evento Aperitivi&Co Experience che si è tenuto a Milano nel marzo 2018.

Le Origini della Cachaça

Sulle origini della Cachaça circolano molte storie fra produttori, baristi e appassionati.

Prima di continuare, devo dire qualche parola sulla differenza fra Cachaça e rum. So degli sforzi del Brasile per difendere e promuovere la Cachaça come un prodotto tipico nazionale, con caratteristiche sue proprie, diverso dal rum. E penso che abbiano senso. Ma per quanto riguarda la mia Ricerca sulle origini del rum, la Cachaça e il rum sono la stessa cosa: distillati la cui materia prima viene dalla canna da zucchero.

La storia che circola nel Mondo del Rum comincia nel 1532, quando I Portoghesi iniziano a coltivare la canna in Brasile. Qualcuno dice che la produzione di un nuovo distillato dalla canna comincia quasi subito, altri qualche decennio dopo. C’è poi chi aggiunge che i Portoghesi avevano appreso l’arte della distillazione dagli Arabi mentre altri sostengono che in documenti dell’epoca appare la parola cagaza o qualcosa di simile. Insomma, le origini del rum secondo questa storia sarebbero sì in Brasile, ma quasi un secolo prima dell’arrivo degli Olandesi. Come spesso accade, questa storia rimbalza dai libri ai siti web, dai siti web ai festival e poi torna indietro. E la sua diffusione le fornisce autorevolezza e prestigio. Ma le sue fonti non sono chiare, come minimo. Qualcuno non cita alcuna fonte, altri indicano non meglio identificati documenti scritti.

E a questo punto devo fare alcune considerazioni di metodo su come si fa ricerca storica.

In primo luogo si fa spesso confusione fra la semplice fermentazione e la distillazione di bevande alcoliche. La distillazione commerciale diventa di uso comune in Europa sono all’inizio del 1600. Ed è difficile pensare che in Brasile sia arrivata prima.

Detto questo, per anticipare le origini del rum al 1532, abbiamo bisogno di fonti storiche affidabili sulla distillazione, e non la semplice fermentazione, dei derivati della canna. Nessuno, per quanto ne so, le ha fornite.

Poi, se la fonte è un documento scritto, per citarlo dobbiamo prima averlo letto direttamente o fidarci dell’autore che lo cita. E deve essere un documento ben identificato. Se è un normale libro stampato, basta il titolo, l’autore e la data di stampa. Ma se è un manoscritto o un libro antico e raro, dobbiamo dire in quale Biblioteca o Archivio è conservato, e la sua classificazione.

Infine, documenti scritti nel Portoghese del ‘500 non sono facili da capire. Come tutte le lingue, il Portoghese è cambiato molto nel corso dei secoli ed il significato delle parole spesso non ci è più chiaro. Per esempio, durante la maggior parte del periodo coloniale, la parola cachaza indicava la schiuma dei calderoni dove bolliva il succo di canna e non il distillato.

Concludendo, la storia sulle origini del rum/cahaza nel Brasile del 1532 non è ancora stata dimostrata.

Marco Pierini

Il marchio Havana Club fra Bacardi e Cuba

Qualcuno la ha già chiamata la guerra del rum. Dura in realtà da più di mezzo secolo, da quando nel 1960 il governo rivoluzionario cubano nazionalizzò le fabbriche Bacardi a Cuba. Anche se solo negli ultimi anni ha preso la sua forma attuale.

La Bacardi da una lato e la Pernod Ricard e il governo cubano dall’altro si sono contesi per anni la possibilità di usare il marchio Havana Club negli Stati Uniti. Ed ha vinto Bacardi. La Corte Suprema Usa, sì, proprio la Corte Suprema, ha posto fine alla disputa negando il 14 maggio alla compagnia Cubaexport la possibilità di difendere il suo diritto di iscrizione del marchio negli Stati Uniti.
Quindi negli Stati Uniti, e solo negli Stati Uniti, con il marchio Havana Club si continuerà a vendere un rum prodotto a Porto Rico dalla Bacardi. Mentre nel resto del mondo con il marchio Havana Club si vende un rum prodotto a Cuba e distribuito dalla multinazionale francese Pernod Ricard.
Prima della nazionalizzazione la Bacardi aveva già trasferito marchio e impianti all’estero quindi riuscì a sopravvivere fuori da Cuba ed oggi è una grande multinazionale con sede a Nassau, nelle Bermuda.
Ma Cuba continua ad essere centrale nell’immaginario collettivo dei consumatori di rum, e sotto il marchio, fortissimo, di Havana Club, in origine di proprietà della famiglia Arechabala e poi nazionalizzato, a Cuba si è continuato a produrre rum che a partire da un accordo del 1993, è distribuito dalla multinazionale francese Pernod-Ricard.

Nel 1996 la Bacardi mise in vendita negli Stati Uniti una marca Havana Club prodotta prima nelle Bahamas e poi a Porto Rico. La Pernod-Ricard rispose con una denuncia sostenendo che l’indicazione Havana Club confondeva i consumatori inducendoli a credere che il rum fosse prodotto, appunto, all’Havana. La Bacardi rispose che era solo un nome commerciale, non un’indicazione geografica, che certamente rinviava all’origine cubana della ditta, ma che sull’etichetta era chiaramente riportato il vero luogo di produzione. Così è iniziata la guerra legale a cui ha posto fine il 14 maggio scorso la sentenza della Corte Suprema. Come sempre quando si tratta di Cuba, ed in particolare di rum cubano, le considerazioni di ordine commerciale e legale si intrecciano con quelle di ordine politico. Alla base di tutto c’è ovviamente l’embargo che dura ormai da 50 anni degli Stati Uniti contro Cuba. E l’influenza che la Bacardi ha sulla politica degli Stati Uniti. Bacardí ha anche aiutato gli eredi in esilio della famiglia Arechabala a costituire in Liechtenstein la José Arechabala International, da cui ha acquistato i diritti di Havana Club nel 1997. Ed ha agito per far approvare una legge del 1998, detta “Sezione 211”, che nega il diritto di protezione intellettuale al marchio Havana Club cubano in territorio Usa, in quanto proveniente da espropriazione illegittima. Non è certo mia intenzione entrare nel merito di una vicenda cos’ complessa e che smuove simili interessi. Certo, la presenza di due rum diversi sotto lo stesso marchio Havana Club costituisce una situazione singolare e non facile da comprendere.

 

Marco Pierini

Showrum 2019

Il prossimo 13 e 14 ottobre si terrà a Roma la settima edizione di ShowRum, il primo festival del rum a comparire sul mercato italiano. Il festival è nato da un’idea di Leonardo Pinto – conosciuto membro della rum community e uno dei primi in Italia ad occuparsi di rum – il quale presenta il suo evento come “il più importante evento italiano dedicato ai distillati di canna da zucchero, il rum e la cachaça. Fra centinaia di etichette in degustazione, decine di masterclass, seminari, incontri, ed i nuovi spazi dedicati al mondo dei cocktail, il festival rappresenta l’occasione perfetta per accrescere la propria conoscenza in fatto di rum o scoprire, per la prima volta, il gusto autentico dei Caraibi.”

L’evento si terrà nell’A.Roma Lifestyle Hotel, in Via Giorgio Zoega 59.

Per chi volesse saperne di più:

https://www.showrum.it

Claudio Pierini

The Rum Day 2019

Fra i vari festival ed eventi dedicati al mondo del rum in Italia uno di quelli che destano maggiore interesse fra tutti gli appassionati di rum è il Rum Day, che si terrà il 27 e 28 ottobre a Milano, in via Watt 15.

Organizzato da bartender.it, questo evento  nato nel 2014 e giunto ormai alla sesta edizione è un importante punto di incontro in cui le aziende importatrici di rum nel mercato italiano presentano i loro prodotti a un pubblico interessato di addetti ai lavori e di appassionati. L’evento è arricchito da una serie di masterclass e di conferenze aperte al pubblico, e dalla presenza di uno shop che permette all’utente interessato di acquistare i prodotti presentati agli stand.

Per chi volesse saperne di più:

http://www.therumday.it/

http://www.bartender.it/

Claudio Pierini

Il Rum nella pubblicità anni Cinquanta

Come tutti sappiamo, Bacardi è uno dei marchi di rum più importanti, diffusi e conosciuti al grande pubblico. Matt Pietrek, autore del blog www.cocktailwonk.com , ha recuperato questo interessante articolo (in foto) uscito sulle rivista “The Tatler”, il 12 Novembre 1952, che ci mostra come Bacardi si faceva pubblicità negli anni Cinquanta, prima della sua “fuga” da Cuba.

Traducendo letteralmente il passaggio principale, che ci interessa di più: “l’unico rum che dovrebbe essere usato nei cocktail è Bacardi”.

Non c’è da stupirsi che, lanciando continuamente messaggi di questo genere, siano negli anni riusciti ad imporsi come uno dei marchi più famosi al mondo.

Claudio Pierini

Don Josè Arechabala

Nel 1862, all’età di 15 anni, uno dei pionieri del rum cubano, José Arechabala y Aldama arriva all’Avana. Era nato nel 1847 nella provincia di Vizcaya, nel Paese Basco. Anche lui, come Facundo Bacardì e come tanti giovani spagnoli prima e dopo di lui cercava fortuna a Cuba. L’Isola era ormai quasi tutto quello che restava alla Spagna del suo antico impero, su cui, si diceva con orgoglio, “non tramonta mai il sole”.

Era energico e ambizioso e nel 1878, nella vivace città costiera di Càrdenas, fondò la sua azienda che, forse con un po’ di nostalgia, chiamò La Vizcaya. L’azienda si dedicava a distillare rum con un piccolo alambicco. Gli affari andarono bene, molto bene, tanto che nemmeno le grandi distruzioni causate da un terribile ciclone nel 1888 fermarono la crescita dell’impresa. Nel 1921 l’impresa, ormai una delle più grandi di Cuba, diventò una società per azioni con il nome di “José Arechabala, S.A.” di cui Don José divenne il primo presidente. Nonostante il Proibizionismo e la Grande Crisi del 1929, l’impresa crebbe e negli anni ’50 era diventata la più importante produttrice di rum di Cuba e una delle più importanti aziende dell’isola.

Lo stesso marchio Havana Club fu introdotto nel 1935 dalla famiglia Arechabala. L’azienda fu confiscata dal governo dopo il 1959 e la famiglia lasciò l’isola. Non conosco i dettagli giuridici, ma la famiglia Arechabala non riuscì a trasferire all’estero né il marchio, né la produzione (come fatto ad esempio da Bacardì). Oggi il vecchio marchio Arechabala è diventato Arecha e appartiene allo stato cubano. In un primo periodo la produzione era rivolta solo al mercato interno, poi ai paesi socialisti alleati di Cuba, ma da tempo Arecha viene esportato ovunque.

Claudio Pierini

Il Rum fra tre Imperi

Nella seconda metà del ‘600, quando il rum inizia la sua marcia trionfale, tre grandi imperi coloniali si dividono la maggior parte dei Caraibi.

L’impero spagnolo domina ancora le isole maggiori, Cuba, Portotico, parte di Santo Domingo. L’impero francese occupa saldamente Martinica, altre isole minori e una parte di Santo Domingo (oggi Haiti).L’impero inglese occupa da tempo Barbados ed altre isole minori e  nel 1655 strappa agli spagnoli la grande isola di Giamaica.

La canna da zucchero era coltivata ovunque e ovunque si poteva quindi produrre il rum. Ma le scelte delle tre nazioni europee furono profondamente diverse.

Vogliamo qui raccontare brevemente il rapporto fra i tre imperi ed il rum nel secolo che va dall’emergere del rum a Barbados e Martinica attorno al 1650 e la metà del ‘700.

Cominciamo con il più antico, l’impero spagnolo.

La Spagna era un grande produttore di vino e di brandy. Gran parte della produzione veniva esportata nelle colonie spagnole d’America e nelle nazioni dell’Europa settentrionale, fra cui l’Inghilterra. I produttori spagnoli di vino e brandy vedevano il rum come una minaccia ai loro interessi e spinsero il governo a scoraggiare in tutti i modi la produzione di bevande alcoliche nelle colonie. Divieti di coltivazione dell’uva,, divieti di vendita di bevande alcoliche agli indigeni, divieto di vendita di bevande alcoliche nelle città ecc. Nel corso del tempo si susseguirono anche varie leggi che proibivano la distillazione, con pene severissime. Non sempre erano rispettate fino in fondo, ma certo pesarono negativamente sullo sviluppo della produzione di rum. A questo si aggiunse la decadenza della produzione di zucchero, in gran parte ancora non spiegata dagli storici, e una minore passione degli spagnoli per le bevande distillate ad altra gradazione. Come risultato di tutto questo, la produzione di rum nelle colonie spagnole fu a lungo scarsa e di cattiva qualità.

Anche la Francia era un grande produttore ed esportatore di vino e brandy. Anche i produttori francesi temevano la concorrenza del rum. Ma la scelta del governo francese fu diversa. La produzione di rum non fu mai vietata. Fu invece vietata l’esportazione di rum in Francia, riservando il grande mercato interno al vino ed al brandy. Era però permesso esportare il rum in Canada, allora colonia francese, in Africa dove veniva scambiato con gli schiavi e in tutti i paesi stranieri. In particolare molto rum e molta melassa venivano esportati, spesso di contrabbando, nelle tredici colonie inglesi dell’America Settentrionale. Inoltre nelle colonie francesi la produzione di zucchero era fiorente ed i francesi era più affezionati degli spagnoli alle bevande forti. Quindi, la produzione di rum nelle colonie francesi dei Caraibi fu sempre importante e di relativa qualità.

L’Inghilterra non produceva vino e brandy. In compenso gli inglesi bevevano molto, da sempre. Importavano il vino e il brandy soprattutto dalla Francia e dalla Spagna. E li pagavano cari. Era un flusso continuo di ricchezza che lasciava l’Inghilterra per andare ad arricchire proprio i suoi nemici più pericolosi. Quindi l’Inghilterra, anzi ormai possiamo dire l’impero britannico, trattò la nuova bevanda in modo profondamente diverso. Invece di proibire o limitare la produzione e l’esportazione di rum, l’impero britannico la favorì in tutti i modi, cercando di sostituire con il rum i consumi di vino e brandy di importazione. Non fu un’impresa facile, né rapida e certo non fu indolore per la salute di tanti sudditi britannici. Ma ebbe successo. L’impero britannico diventò presto il più importante produttore e consumatore di rum. E il rum era considerato come qualcosa di tipicamente britannico.

Claudio Pierini