La Lobby del Rum

Si racconta che un giorno Re Giorgio III stava facendo una passeggiata a cavallo dalle parti di Weymouth, accompagnato da William Pitt il Vecchio, quando incontrarono una ricchissima carrozza, seguita da numerosi valletti a cavallo, vestiti di lussuose livree.
Con grande irritazione del Re, lo splendore della carrozza, e del suo seguito, sorpassava di molto quello della sua. Quando seppe che quella meraviglia apparteneva a uno grande piantatore di zucchero giamaicano, il Re esclamò:”Zucchero, zucchero, ehi? Tutto dallo zucchero? Quanto sono le tasse, ehi Pitt, quanto sono le tasse?”

Oggi è difficile da capire, ma alla metà del ‘700 la parte più preziosa dell’Impero Britannico erano le piccole isole delle Antille che producevano lo zucchero, le Indie Occidentali come erano chiamate allora, non le grandi colonie del Nord America.
L’élite dei Piantatori delle Indie Occidentali , i cosiddetti Sugar Barons, accumularono ricchezze immense . Molti tornarono a vivere in patria, e come tutti i nuovi ricchi, ostentavano apertamente le loro ricchezze: ville sontuose, arredi preziosi, gioielli,ori, pranzi favolosi, insomma tutto quello che il denaro poteva comprare. “Ricco come un Indiano Occidentale” divenne un comune modo di dire.
Come sempre nella storia, e non certo solo in quella britannica, il passo successivo fu puntare alla rispettabilità sociale che solo la terra poteva dare, ed al potere politico.

Comprarono grandi proprietà terriere con antichi castelli, divennero magistrati locali ed esponenti di confraternite e corporazioni. Infine, si fecero eleggere in Parlamento. Prima pochi, poi sempre di più. Si calcola che nel nel 1765, più di 40 membri del Parlamento erano “Indiani Occidentali”.

In Parlamento costituirono una vera e propria lobby con l’obiettivo primario di difendere i loro interessi in quanto produttori di zucchero e, per quanto qui ci riguarda, di rum. Si riunivano regolarmente in alcune taverne e caffè, avevano i loro leader e i i loro pubblicisti. I libri e gli articoli “scientifici” a favore del rum di cui abbiamo già parlato erano promossi e finanziati dalla lobby. Ma accanto alla formazione dell’opinione pubblica, si lavorò attivamente per far approvare leggi, decreti e regolamenti che favorissero il consumo di rum. Un aiuto venne anche dal clima.

Negli anni ’50 si susseguirono una serie di cattivi raccolti di grano con conseguente aumento del prezzo del pane che, ricordiamolo ancora, era l’alimento base delle classi inferiori. Per prevenire carestie e disordini, il Parlamento, spinto dalla lobby dello zucchero e del rum e con l’appoggio delle maggiori città portuali interessate ai traffici transatlantici, proibì la distillazione del grano, con cui si produceva il diffusissimo ed economico Gin.
Subito dopo , nel 1760 fu approvata una legge che abbassava fortemente i dazi doganali sull’importazione di rum, purché prodotto nelle Indie Occidentali Britanniche.
Senza gin e con il rum a buon mercato, le classi popolari si buttarono sulla nuova bevanda. Il consumo e l’importazione aumentarono enormemente.

Ma il capolavoro della lobby, fu l’inserimento del rum nelle regolari razioni di cibo e bevande che ricevevano i marinai ed il soldati delle forze armate imperiali. Con conseguenti grandi e lucrosi contratti di fornitura per flotte ed eserciti. Ma non solo.
I marinai ed i soldati che si erano abituati a bere rum durante i lunghi anni di servizio, volevano continuare a berlo anche dopo il congedo, quando tornavano alle loro case. Un caso di creazione da zero della domanda di un nuovo prodotto che fa impallidire le moderne strategie di marketing.

In poco tempo, il Rum e la Marina Britannica divennero inscindibili, e le distribuzioni giornaliere della razione di rum a bordo delle navi, un elemento fondamentale del folklore. Ci torneremo.

Marco Pierini

L’Invenzione dell’Acquavite: un Primato Italiano

In Occidente, il primo distillato ad essere prodotto e consumato su larga scala è stato l’ Aqua Vitae, detta anche Ardens, ottenuta dalla distillazione del vino; tutti i moderni distillati, liquori, amari ecc. discendono da questa prima, grande “invenzione”. Ed è un’invenzione italiana: un Primato di cui andare orgogliosi.

C’è chi dice che già gli antichi Egizi distillavano l’alcol, altri i Sumeri e altri ancora questa o quella popolazione delle steppe, ma nessuno ha portato prove affidabili. Inoltre, se nel lontano passato qualcuno è riuscito a distillare l’alcol, come è possibile che una conoscenza tanto preziosa sia andata perduta? Perché una cosa è certa, i Greci ed i Romani dell’Età Classica non bevevano distillati. Bevevano il vino, la birra e conoscevano altre bevande fermentate, ma non forti bevande alcoliche distillate.

Ad Alessandria d’Egitto, attorno II° secolo D.C., troviamo il primo disegno di un vero apparato per la distillazione. Poi arrivarono gli Arabi che dedicarono secoli di ricerche e studi alla conoscenza della materia ed anche alla distillazione. Alessandrini e Arabi distillarono l’alcol? Forse sì, ma la mancanza di prove certe e di uno sviluppo successivo mi fa pensare che l’alcol sia rimasto – nella migliore delle ipotesi – un liquido raro, usato solo per scopi scientifici o alchemici.

Il vero cammino dell’alcol comincia invece in Italia, nella famosa Scuola Medica Salernitana. La più antica descrizione su come distillare alcol dal vino è in un manoscritto della “Mappae Clavicula” scritto intorno al 1150 da un non ben identificato “Maestro di Salerno”. Si tratta di un crittogramma:

“Da una mistura di puro e forte xkmk con tre qbsuf di tbmkt, scaldata negli appositi recipienti, si ricava un’acqua che se accesa brucia, ma lasciando incombusto il materiale sottostante”.

Dove xkmk, qbsuf, e tbmkt sono puzzle formati dalla sostituzione delle lettere con quelle che le seguono nell’alfabeto latino: XKNK = VINI; QBSUF = PARTE;  TBMKT = SALIS. La “n” nella parola XKNK è verosimilmente un errore per “o”.

Quindi il testo decifrato è: “Da una mistura di puro e forte vino con tre parti di sale, scaldata negli appositi recipienti, si ricava un’acqua che se accesa brucia, ma lasciando incombusto il materiale sottostante”.

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A Salerno la nuova sostanza viene usata in medicina e comincia ad essere conosciuta ed usata sempre di più.

Spostiamoci adesso nell’Italia dei Comuni ed in particolare a Bologna, centro di cultura, scienza e alchimia. Oggi la parola ha una cattiva fama, ma nel Duecento l’alchimia era una cosa seria, un sapere pratico e attivo, ben differente dalle astratte e teoriche discussione di molti dotti dell’epoca. E, fra le tante sostanze prodotte dagli alchimisti, c’è uno strano liquido incolore come l’acqua, ma che brucia come il fuoco, presto chiamato aqua, l’alcol. In seguito, qualcuno lo chiamò “Aqua Vitae“, Acqua della vita, e il nome è rimasto. Alla metà del Duecento la produzione di alcol in Italia centro-settentrionale è una pratica acquisita, ma ancora solo in ambito medico.

Poi arriva Taddeo Alderotti, nato a Firenze, ma attivo a Bologna dopo il 1260. Era un medico molto famoso, Papi e Signori richiedevano le sue cure e le pagavano a caro prezzo. La sua opera più famosa è un libro di ricette e consigli medici, Consilia, in cui dedica ampio spazio al modo di fare l’acquavite ed al suo uso medico, con un grande entusiasmo per le sue virtù: cura ogni tipo di febbre, corregge “l’alito fetido”, ritarda la calvizie, cura il mal caduco, gli occhi, la paralisi degli arti, i calcoli dei reni e della vescica, la sordità, il mal di denti, la dissenteria, la sciatica e tanti altri. “E poi risana il vino guasto, se vi se ne mette un po’”. E come se non bastasse, l’acquavite conserva la giovinezza. Descrive anche come deve essere fatto l’apparato e tutto il processo per distillare il vino, con una serie di accorgimenti tecnici.

 

Alderotti contribuisce a far conoscere l’acquavite al grande pubblico dei lettori dell’epoca, è un vero propagandista del nuovo prodotto. Qualcuno capì la novità e si ingegnò a soddisfare questo nuovo bisogno dei consumatori.

Non accadde a Bologna, ma a Modena. Infatti sappiamo che già nel 1320 il borgomastro di una città tedesca invita i concittadini ad usare il vino distillato importato da Modena per difendersi dalla peste. Poco dopo, Ludovico il Bavaro scende in Italia per essere incoronato Imperatore. Al suo seguito c’è un medico, Hieronymus Burkhard, che a Modena si dedica a studiare la distillazione dell’acquavite e che nel 1351 riceve il permesso per aprire due Farmacie, con una patente imperiale che lo autorizza a distillare l’acquavite.

Ed ecco le tasse, incubo secolare di ogni distillatore: negli Statuti del Comune di Modena del 1487, ma riformati su quelli del 1327, si stabilisce una specifica tassa sull’esportazione di vino e acquavite, segno evidente della esistenza di una produzione ed esportazione significativa.

Come avviene il passaggio dell’acquavite da medicina a bevanda di piacere? Alderotti e gli altri medici prescrivono di spalmare l’acquavite sulle parti del corpo malate, ma soprattutto di berla regolarmente, ogni giorno, per curare tante malattie. Ma consigliano anche di berla per prevenire le malattie, mantenere sano il corpo e rinviare la vecchiaia. Bere acquavite diventò quindi per molti un’abitudine.

Il passaggio dal laboratorio del farmacista al tavolo della taverna è avvenuto, in Italia e ed altrove, dopo Alderotti e dopo Modena. Un Anonimo trecentesco già scrive: “E la sua bontà agisce non solo nel corpo, ma anche nell’anima: infatti fa dimenticare la tristezza e l’angoscia, provoca allegria e rinfranca l’intelletto quando si dedica alla ricerca di cose difficili e sottili, dà coraggio, aiuta a sentire meno il dolore e la fatica, ed ha molte altre proprietà di questo genere.”

 

Comunque, il primo trattato dedicato interamente all’acquavite è il Libreto de Aqua Ardente” scritto da Michele Savonarola poco prima del 1450. Savonarola descrive diversi tipi di acquavite e un consumo di piacere diffuso. Molti abusano dell’acquavite, scrive, ubriacandosi e questo non viene presentato come un avvenimento eccezionale, ma come una cattiva abitudine molto diffusa fra il volgo. Poi parla dell’esistenza di tanta acquavite di scarsa qualità che viene venduta in piazza ai cittadini meno abbienti e racconta anche di problemi legati alla qualità del prodotto ed all’onestà e correttezza dei produttori.

E’ quindi evidente che nella prima metà del Quattrocento in Italia esiste già una vera produzione commerciale su larga scala dell’acquavite. Una produzione non più in mano a medici e farmacisti, ma a veri imprenditori del settore e che è destinata al consumo di piacere di un pubblico con gusti e consumi differenziati.

La strada è ormai aperta per lo sviluppo della grande tradizione distillatoria e liquoristica italiana ed europea. Una strada che arriva diritto fino a noi.

Marco Pierini

PS Ho scritto questo articolo per l’evento Aperitivi&Co, che si è tenuto a Milano nel Maggio 2018. Per saperne di più visitate il sito http://www.bartender.it/

 

Per saperne di più:

AA.VV.   Grappa e Alchimia”   Centro Documentazione Grappa Luigi Bonollo 1999

Savonarola, M.  “I trattati in volgare della peste e dell’acqua ardente” editi da L. Belloni   1953

Havana Club: un marchio di successo

Nel 1935 all’Avana nasce l’Havana Club Bar nella Piazza della Cattedrale. In quel bar i baristi usano per i loro cocktail un rum che porta lo stesso nome, Havana Club. Un marchio di proprietà della grande impresa ronera Arechabala che lo produce nella città di Càrdenas: il grande successo del rum Havana Club inizia allora. Dopo la rivoluzione castrista del 1959, Arechabala, come le altre imprese cubane, viene nazionalizzata e continua la produzione, anche se credo un po’ in sordina.

Nei decenni successivi Havana Club viene esportato nella allora Unione Sovietica e negli altri Paesi Socialisti dell’Europa dell’Est, allora stretti alleati del governo cubano. Nel 1993, dopo il crollo dell’Urss, il governo cubano stringe un accordo con la multinazionale francese Pernod Ricard per rilanciare la produzione di Havana Club e distribuirlo in tutto il mondo. La mossa è un successo. In quegli anni Pernod Ricard cresce molto ed oggi è la seconda impresa al mondo nel settore delle bevande alcoliche.
E Havana Club arriva, o a volte torna, sui mercati di tutto il mondo, con l’esclusione, come sappiamo, degli Usa.

E’ un marchio di grande successo in particolare in Europa, dove da anni assistiamo ad una crescita del consumo di rum, e dove oggi Havana Club è il rum dorato più venduto.
Forza del marchio, forza del prodotto?

Il marchio è perfetto per l’immaginario collettivo dell’europeo medio sul rum. Tutti più o meno sanno qualcosa di Cuba e dell’Havana, e molti europei ci sono stati. E normalmente sono tornati incantati. Lo hanno bevuto a Cuba, e ne hanno comprato qualche bottiglia da portarsi dietro. E tornati a casa vogliono riprovare quelle emozioni, almeno in parte, e continuano a bere Havana Club.

Su questo inesausto desiderio europeo di esotismo la Pernod Ricard lavora con intelligenza. Visitate i siti di Havana Club. Sono belli, un po’ anticati, informati ma non troppo, colti il giusto. Soprattutto sono molto cubani. Le strade, le piazze, la gente, la musica, i paesaggi… Cuba è cucinata in tutte le salse. Forse troppe, ma insomma, non stucca affatto, anzi. E’ chiaramente un messaggio pensato per un pubblico europeo culturalmente abbastanza maturo ed avvertito che cerca roba buona, autentica, tipica e, certo, esotica. Rispetto ai siti di Bacardi e al loro marketing siamo su un altro piano.

Claudio Pierini

Il Rinascimento del Rum Bianco

Mi sono occupato molto di questo tema in passato: nel Novembre 2015 a Milano durante THE RUM DAY ho tenuto un Seminario su uno dei miei argomenti preferiti, Il Rinascimento del Rum Bianco. Poi ne ho parlato di nuovo a Madrid nel Maggio 2016, durante il Congreso International del Ron, e ho pubblicato su GOT RUM? di Gennaio 2017, all’interno di un numero dedicato proprio al Rum Bianco.

 

Per quanto ne so, il primo a dirlo è stato Javier Herrera, fondatore del Congreso Internacional del Ron di Madrid. Qualche anno fa, durante una conferenza a Roma, Javier disse che una parte importante del futuro del rum sarebbe stata giocata dal rum bianco. Un nuovo tipo di rum bianco. Non il distillato neutro, quasi inodore e insapore a cui siamo abituati, largamente usato nella miscelazione più banale per dare forza alcolica al cocktail e che costituisce il grosso del consumo. Ma un prodotto diverso, di qualità, ricco di aroma, di sapore, di persistenza. Un rum bianco nato per essere bevuto liscio, con tutta calma, degustato.

Confesso che non gli credetti. Come tutti amavo i rum invecchiati, il loro colore ambrato, la loro ricchezza aromatica e gustativa. Pensai che Javier stesse esagerando e che la tendenza che descriveva, ammesso che fosse reale, sarebbe stata una cosa per pochi conoscitori, una piccola nicchia. Sbagliavo. I fatti hanno confermando l’intuizione di Javier: in pochi anni sono arrivati sul mercato numerosi nuovi rum bianchi da degustazione. Ormai sono presenti sul mercato molti rum bianchi. Alcuni sono una nuova produzione, altri esistevano già, ma erano quasi introvabili: Clairin, bianchi Giamaicani overproof , molti, agricoli bianchi, altri rum da succo per esempio di Mauritius, bianchi da melassa fatti in Giappone, in Scozia etc. E questo è solo l’inizio. Altri arriveranno. Alcuni sono invecchiati qualche mese o qualche anno e poi filtrati per rimuovere il colore, altri non sono invecchiati per niente, ma solo lasciati riposare per un po’ e poi imbottigliati. E spesso sono buoni: profumati, saporiti, persistenti. Sono già una fetta del mercato, piccola, ma in chiara crescita.

Certo, un buon rum bianco non è facile da fare. Senza il contributo della botte, tutto si gioca nella fermentazione e poi nella distillazione. Ci vogliono i lieviti giusti e tanta sapienza. Ma il risultato premia: rum sapidi, spesso con un forte sentore di canna, a volte un po’ aggressivi, ma comunque buoni e ovviamente ad un costo minore. E difficili da truccare. Se posso introdurre una nota personale, ho cominciato anch’io a berli seriamente e adesso mi piacciono sempre di più e mi interessano sempre di più.

Comunque, l’importanza del rum bianco non è una novità assoluta, ma un ritorno, anzi un Rinascimento, White Rum Renaissance, appunto. Che io sappia, nessuno ha studiato seriamente la storia dell’invecchiamento del rum, forse perché sino ad oggi si dava per scontato che il rum fosse invecchiato. Comunque, in passato tutto il rum era bianco e localmente veniva consumato fresco, appena distillato. Oppure veniva messo nelle botti per esportarlo. E con il tempo ci si accorse che i mesi trascorsi nelle botti durante i lunghi viaggi lo rendevano più bevibile, più sano, insomma migliore. E conoscendo un po’ le rudi tecniche di distillazione dell’epoca, la cosa non deve stupire. Ma la pratica di invecchiare coscientemente il rum è relativamente recente: inizia forse nella seconda metà del Settecento e fiorisce commercialmente verso la metà dell’Ottocento, a Cuba ed altrove. Ancora oggi nei Caraibi si beve soprattutto il rum giovane, bianco. I rum scuri, invecchiati, piacciono soprattutto ai consumatori europei e nordamericani. E per farci contenti sono arrivati tanti rum che dichiarano lunghi anni di invecchiamento, scuri, densi. E cari. Rum per un consumatore esigente, dicono, disposto a pagare molto per i lunghi e costosi anni di invecchiamento.

Niente di male, ovviamente. E ci sono nel mercato meravigliosi rum invecchiati che meritano tutto il loro prezzo. Ma purtroppo sappiamo che non sempre è così e che gli anni scritti su tante etichette lasciano molti dubbi. Inoltre, per inseguire il gusto di nuovi consumatori sono arrivati ed hanno avuto anche successo molti prodotti che sono lontani dal rum autentico e che vogliono assomigliare allo Whisky, o al Cognac.

Ma il Rum è il Rum, non una brutta copia di altri distillati. Non ha senso invecchiarlo troppo. E senza i troppi anni in botte non deve necessariamente costare caro.  Il Rum è il figlio allegro della canna da zucchero: deve sapere di canna, di erba, di sole. E il nuovo rum bianco deve essere autentico se vuole essere buono. Deve essere cioè ben fermentato e ben distillato, e basta.

Ma c’è di più. Credo che il rum bianco sia il più adeguato a rispondere ad alcune delle maggiori tendenze del mercato attuale, e non solo di quello del rum. In primo luogo perché risponde alla domanda crescente di prodotti autentici, fatti in maniera tradizionale, naturali, semplici, ecc. Poi perché è generalmente un rum giovane, bianco, il primo prodotto messo in commercio dalle distillerie artigianali. E le distillerie artigianali sono un fenomeno già oggi importante negli USA e che crescerà ancora e si diffonderà ovunque. Infine, il consumatore sempre di più vuole conoscere quello che beve. Ovunque fioriscono Festival del rum, eventi dedicati al rum, corsi, conferenze, degustazioni guidate ecc. E il rum bianco, giovane, è più facile da esaminare, spiegare, capire, giudicare.

Tutto questo farà crescere l’interesse verso il rum bianco, aumenterà la percezione del suo valore, favorirà la crescita dei consumi. Tutto quello che, con un po’ di enfasi, abbiamo voluto chiamare il suo Rinascimento.

Marco Pierini

Quattro Passi fra le Botti

All’inizio del 1700, gli abitanti delle colonie inglesi del Nord America bevevano molto e bevevano soprattutto rum. In parte lo importavano dai Caraibi, in parte invece lo producevano in loco con la melassa importata dai Caraibi. Il rum prodotto localmente era considerato di minor qualità e costava meno; eppure, scrive nel 1702 il mercante di Filadelfia Isaac Norris, “Penso che abbia solo bisogno di invecchiare per avere un buon sapore ed è abbastanza forte”.

Questa lettera è la più antica traccia che ho trovato della consapevolezza che invecchiando il rum diventa migliore. Perché sul rum è stato scritto molto, ma, per quando ne so, un seria ricerca sulla storia dell’invecchiamento non è ancora stata fatta. Eppure l’argomento è interessante, molto.

Per adesso, è bene intanto  ricordare che appena distillato tutto il rum è bianco, come del resto tutti gli altri distillati. E che per secoli, il rum veniva consumato subito dopo la produzione, bianco. La botte era semplicemente in contenitore in cui il rum, come quasi tutte le altre merci, era trasportato.

E’ difficile per noi moderni renderci conto di quanto erano lunghi i viaggi all’epoca della vela e dei cavalli. Dalle piantagioni dei Caraibi alle taverne europee, il rum passava lunghi mesi nelle botti e probabilmente qualcuno si accorse presto che il rum arrivava migliore di come era partito. Ma la pratica di invecchiare coscientemente il rum per migliorarlo è relativamente recente. Ha radici nella seconda metà del ‘700, ma probabilmente fiorisce commercialmente solo un secolo dopo, verso la fine dell’800, prima a Cuba, pare,  e poi altrove.

Oggi invece nel mondo del rum si parla molto di invecchiamento. Sembra che senza invecchiamento non ci sia qualità, molte aziende lo mettono al centro delle loro campagne di marketing e gli anni scritti in etichetta sono spesso decisivi nelle scelte della maggioranza dei consumatori. Semplificando un po’, l’opinione comune è che più un rum è invecchiato, più deve essere buono e costare caro. Ma è davvero così? Oppure le cose sono diverse ed un po’ più complicate.

Ma, prima di tutto, che cosa è esattamente l’invecchiamento del rum, e di ogni altro distillato? Come cambia veramente il rum dentro la botte?  In estrema sintesi, l’invecchiamento è il periodo di tempo che il distillato passa nella botte di legno, prima dell’imbottigliamento. Con l’imbottigliamento il processo di invecchiamento del rum finisce. E durante questo periodo, fra il distillato, il legno della botte e l’aria esterna avvengono una serie di reazioni chimiche che ne modificano il colore, l’aroma ed il sapore.

Ma, tutte le botti sono uguali? Oppure contano il tipo di legno, l’età della botte, le sue dimensioni ecc. E quando qualcuno parla di Tropical Aging, cosa vuol dire?

Alla fine del processo, la composizione chimica del rum invecchiato è sommamente complessa. Il rum è una miscela di più di duecento componenti. E’ composto soprattutto di alcol etilico ed acqua, ma questi ultimi non sono responsabili dell’aroma e del sapore. Questa funzione ricade sui componenti minoritari o congeneri. Bene, fin qui ci siamo, ma forse è utile ed interessante saperne qualcosa di più.

Un’altra domanda: Sempre a proposito dell’invecchiamento, della qualità e del costo di una bottiglia,  dobbiamo sempre fidarci dei numeri che campeggiano nelle etichette? Forse no, forse è meglio essere prudenti, magari anche un po’ diffidenti e cercare di capire che cosa veramente vogliono dire.

Inoltre, da alcuni anni appaiono sempre più spesso in etichetta parole come Single Barrel o simili. Al di là delle seduzioni del marketing, che cosa vuol dire esattamente?

E forse sarebbe anche bene capire cosa significa dire che un rum è “terminato” in botti diverse da quelle in cui è stato invecchiato e spesso anche in Paesi diversi.

E ancora, ormai Solera è una parola che appare sempre più spesso sulle etichette. Solera, o Sistema Solera o anche metodo solera, è un metodo tradizionale di invecchiamento nato in Spagna per invecchiare i vini di Jerez che poi è stato usato anche per pochi rum particolari. Da qualche anno è invece molto diffuso, soprattutto per i rum prodotti in America Latina. Ma di che cosa si tratta veramente?

Ultimo, ma non meno importante, quali sono i costi ed i rischi dell’invecchiamento per il produttore? Perché è bene sapere che, per il produttore, invecchiare a lungo un rum è costoso, laborioso ed anche molto rischioso.

Marco Pierini

PS: ho pubblicato questo articolo in occasione del Rum Day 2018, tenutosi a Milano. Per saperne di più visitate www.therumday.it

Alle origini della liquoristica italiana: l’Aqua Vitae Composita

Un tipo particolare di acquavite composta, che ebbe grande successo fra i più ricchi, era l’ Aurum potabile –  “Oro potabile” – cioè oro in forma di barrette, lamine o limatura  che si manteneva in infusione nel vino fino a distillare il tutto più volte, pensando (illudendosi) in questo modo di estrarre tutte le virtù medicinali della preziosa sostanza e trasferirle al liquore. Un rimedio, in definitiva, molto potente: l’obiettivo era quello di preservare il corpo dalla corruzione del tempo.
Con gli anni l’uso di bere acquavite si diffonde e il primo vero e proprio trattato ad essa dedicato è plausibilmente quello che il medico ferrarese Michele Savonarola – avo del più noto Fra’ Girolamo – scrisse poco prima del 1450: il “Libreto de aqua ardente”.

Savonarola spiega come, per fare della buona acquavite, ci vogliano vini nuovi, buoni, forti e quindi costosi. Spesso però la sostanza non manifesta i suoi benefici effetti poiché i proprietari e gestori dei terreni la producono con i loro vini peggiori o deteriorati:  “Se po comprehendere che l’aqua ardente non ha molte vuolte li soy effecti e le vertude proprie. La caxone de questo a la materia, zoè al vino, se de’ attribuire; ma più a li rectori e offittiali de le terre, li quali, per le proprie fazende, ne la salute e sanitate di soy citadini negligenti sonno, che in tanta divina cossa non ànno cura, odendo che de li vini marzi e aquadi da li artifici facta è l’aqua ardente.”

Savonarola descrive l’impegno e la complessità tecnica necessaria per una buona acquavite, mentre purtroppo al mercato il prodotto si vende ai poveri a basso prezzo: “Ma penssa ti e considera, che, e qualle, e chomo facta è l’aqua ardente, la qualle in piaza se vende a le povere e miserabelle persone”. A volte qualcuno ne beve troppa e si ubriaca: Savonarola consiglia moderazione, ma non è chiaro quale sia la quantità giusta, forse una “onza” (circa 30 grammi) al giorno, ma non lesina racconti su chi ne ha bevute tre – quattro al giorno per molti anni: a suo dire… senza danni, anzi vivendo a lungo.

Non mancano inoltre alcune parole, spese in uno specifico capitolo, riguardanti l’acquavite composta: “… la qualle composita è nominata, imperò che facta è con coniunctione d’altre cose”, il cui consumo eccessivo fa male non solo al corpo, ma anche “al cervello e a nervi fa grande nocimento, e l’omo perduxe al spasmo, e fa impacire.”

Nel Cinquecento si stampano ormai numerosi libri ed entrano in funzione molte distillerie, sparse un po’ in tutta Italia. Ogni corte ha la sua e si beve per il piacere, non più per curarsi. Aumenta anche il numero e la varietà dei prodotti: l’acquavite composta lascia il posto a veri e propri “liquori” di ogni genere. A Firenze, la Fonderia Medicea di Palazzo Pitti è all’avanguardia e – quando Caterina de’ Medici nel 1533 sposa a Parigi il futuro re Enrico II – i francesi scoprono le virtù dei liquori fiorentini, già all’epoca serviti alla fine del pasto, in particolare del “rosoglio”. E con la lunga reggenza di Caterina si diffonde l’uso di bere liquori, per lo più importati.
D’altronde… “ La consommation générale est le fait d’un commerce dans lequel les Hollandais ont tenu una grande place. La consommation plus raffinée est le fait des Italiens essentielments.”

Marco Pierini

PS: ho scritto questo articolo in occasione dell’evento Aperitivi&Co Experience che si è tenuto a Milano nel marzo 2018.

Alle Origini della Liquoristica Italiana: un Viaggio che parte da Salerno

Racconta la leggenda che a Salerno, nell’Alto Medioevo, si incontrarono quattro maestri della medicina: Helinus, Adela, Pontus e Salernus – un ebreo, un arabo, un greco e un salernitano: insieme fondarono la  Scuola Medica Salernitana, la prima grande istituzione medica dell’Occidente medievale. Anche la vicina abbazia benedettina di Montecassino dette il suo contributo e nel IX secolo la Scuola era già famosa: da tutta Europa i malati accorrevano a Salerno per curarsi… e i medici per imparare.

È proprio a Salerno che, attorno al XII secolo, inizia il cammino dell’alcol in Occidente. Alcol che, probabilmente, era già stato scoperto distillando il vino dagli alchimisti arabi e alessandrini: erano però rimaste esperienze isolate, chiuse nei laboratori degli alchimisti, spesso segrete. A Salerno, invece, la nuova sostanza viene usata in medicina: sia pur lentamente ed in circoli ristretti, l’alcol comincia pian piano a diffondersi.

Il vero salto verso la fama, però, arriva attorno al Duecento; un po’ più a Nord, nell’Italia dei Comuni, in particolare a Bologna. I progressi tecnici permettono un’efficace raccolta /  condensazione dei vapori dell’alcol etilico e una nuova mentalità concreta e razionale sa farne buon uso. A Bologna, all’ombra dell’Università, medici, alchimisti e filosofi fanno esperimenti con questa curiosa sostanza, incolore come l’acqua, ma che brucia, risana e conserva: un’ acqua meravigliosa. E le raccontano nei loro libri. Per un po’ non sanno bene come chiamarla, poi un nome appare: Aqua Vitae, Acqua della Vita, a volte detta anche Ardens, ardente.

Aqua Vitae è il nome con cui si diffonde e da cui derivano il francese eau de vie, il tedesco aquavit, lo scandinavo akvavit ed anche il gaelico uisgebeatha, poi diventato whisky. E fin dai primi passi, si distinguono due tipi fondamentali: aqua vitae simplex fatta di solo vino distillato e aqua vitae composita dove al vino distillato vengono aggiunte piante, radici ed erbe  medicinali di ogni tipo.

Vediamo cosa scrive il grande medico Taddeo Alderotti attorno al 1280:  “Di acquavite, ce n’è una semplice e una composta. La semplice è quella che, senza mescolanza di alcuna cosa, semplicemente si estrae dal vino ed è chiamata anima del vino. Assume le proprietà di tutte le erbe – eccettuate soltanto le viole – fiori, radici e spezie, se rimangono per tre ore in essa. L’acquavite composta si combina con spezie, radici, fiori ed erbe, secondo l’esigenza e la convenienza di ciascuna malattia. La sua dose, in bevanda, sia da una dramma fino a due. E la dose si accresca e si diminuisca secondo il vigore del paziente.”  (una dramma bolognese dell’epoca era circa 3,75 grammi).

È una cura efficace contro quasi tutte le malattie del corpo, ma non solo. “Contro la malinconia e la tristezza: ogni mattina mezzo cucchiaio, a stomaco digiuno, preso con un bicchiere di vino profumato, rallegra, rende ilare e giocondo … Con l’acqua predetta, fatta così, il paziente corregga il suo vino, ogni quattro giorni. E dell’acqua ardente ne beva ogni giorno un cucchiaio, mattina e sera, continuamente fino ad un anno.”. Così ci ricorda Alderotti, specificando come, inoltre, sia in grado di migliorare il vino poco buono o deteriorato.

Se dunque l’aqua vitae simplex è l’antenata dei moderni distillati quali grappa, brandy, whisky, ecc. possiamo a tutti gli effetti dire che l’aqua vitae composita è la madre di liquori, amari, aperitivi, digestivi e corroboranti.

Le ricette erano numerose, perché la farmacopea medievale si basava moltissimo sulle piante, le erbe e le radici del mondo naturale, ma i modi per produrla erano basicamente tre. Nel primo caso si univano direttamente le erbe al vino, distillando poi l’insieme. In un secondo, prima si distillava il vino da solo e poi vi si mettevano in infusione le erbe desiderate. Infine, in un terzo caso l’aqua vitae simplex e le erbe venivano messe insieme nell’alambicco, distillando nuovamente.
Inizialmente l’acquavite composta è un medicinale piuttosto caro: i medici prescrivono di berla (e/o di spalmarla) sulle parti malate. Poi, grazie anche all’impegno degli alchimisti francescani, si fa strada l’idea che la novità debba essere alla portata di tutti, un toccasana per mantenere in salute e “rinviare” la vecchiaia. Si beve soprattutto acquavite composta perché le erbe medicinali potenziano, si crede, gli effetti farmacologici (oltre ad avere un gusto più gradevole).
Così si giunge al 1348, quando compare la Peste Nera – uno dei più grandi flagelli della storia – e, in seguito, altre epidemie minori, ma comunque terribili, continuano ad imperversare in tutta Europa: i medici, quasi impotenti, consigliano alla popolazione terrorizzata di bere acquavite ogni giorno, per prevenire la malattia oltre che per curarla.

Passo passo, di questa medicina si cominciano ad apprezzare anche altre virtù, fino a giungere veramente molto vicini ad una tipologia di consumo di puro piacere: “La sua bontà agisce non solo nel corpo, ma anche nell’anima: infatti fa dimenticare la tristezza e l’angoscia, provoca allegria e rinfranca l’intelletto quando si dedica alla ricerca di cose difficili e sottili, dà coraggio, aiuta a sentire meno il dolore e la fatica, ed ha molte altre proprietà di questo genere.”

Marco Pierini

PS: ho scritto questo articolo in occasione dell’evento Aperitivi&Co Experience che si è tenuto a Milano nel marzo 2018.

Le Origini della Cachaça

Sulle origini della Cachaça circolano molte storie fra produttori, baristi e appassionati.

Prima di continuare, devo dire qualche parola sulla differenza fra Cachaça e rum. So degli sforzi del Brasile per difendere e promuovere la Cachaça come un prodotto tipico nazionale, con caratteristiche sue proprie, diverso dal rum. E penso che abbiano senso. Ma per quanto riguarda la mia Ricerca sulle origini del rum, la Cachaça e il rum sono la stessa cosa: distillati la cui materia prima viene dalla canna da zucchero.

La storia che circola nel Mondo del Rum comincia nel 1532, quando I Portoghesi iniziano a coltivare la canna in Brasile. Qualcuno dice che la produzione di un nuovo distillato dalla canna comincia quasi subito, altri qualche decennio dopo. C’è poi chi aggiunge che i Portoghesi avevano appreso l’arte della distillazione dagli Arabi mentre altri sostengono che in documenti dell’epoca appare la parola cagaza o qualcosa di simile. Insomma, le origini del rum secondo questa storia sarebbero sì in Brasile, ma quasi un secolo prima dell’arrivo degli Olandesi. Come spesso accade, questa storia rimbalza dai libri ai siti web, dai siti web ai festival e poi torna indietro. E la sua diffusione le fornisce autorevolezza e prestigio. Ma le sue fonti non sono chiare, come minimo. Qualcuno non cita alcuna fonte, altri indicano non meglio identificati documenti scritti.

E a questo punto devo fare alcune considerazioni di metodo su come si fa ricerca storica.

In primo luogo si fa spesso confusione fra la semplice fermentazione e la distillazione di bevande alcoliche. La distillazione commerciale diventa di uso comune in Europa sono all’inizio del 1600. Ed è difficile pensare che in Brasile sia arrivata prima.

Detto questo, per anticipare le origini del rum al 1532, abbiamo bisogno di fonti storiche affidabili sulla distillazione, e non la semplice fermentazione, dei derivati della canna. Nessuno, per quanto ne so, le ha fornite.

Poi, se la fonte è un documento scritto, per citarlo dobbiamo prima averlo letto direttamente o fidarci dell’autore che lo cita. E deve essere un documento ben identificato. Se è un normale libro stampato, basta il titolo, l’autore e la data di stampa. Ma se è un manoscritto o un libro antico e raro, dobbiamo dire in quale Biblioteca o Archivio è conservato, e la sua classificazione.

Infine, documenti scritti nel Portoghese del ‘500 non sono facili da capire. Come tutte le lingue, il Portoghese è cambiato molto nel corso dei secoli ed il significato delle parole spesso non ci è più chiaro. Per esempio, durante la maggior parte del periodo coloniale, la parola cachaza indicava la schiuma dei calderoni dove bolliva il succo di canna e non il distillato.

Concludendo, la storia sulle origini del rum/cahaza nel Brasile del 1532 non è ancora stata dimostrata.

Marco Pierini

Il marchio Havana Club fra Bacardi e Cuba

Qualcuno la ha già chiamata la guerra del rum. Dura in realtà da più di mezzo secolo, da quando nel 1960 il governo rivoluzionario cubano nazionalizzò le fabbriche Bacardi a Cuba. Anche se solo negli ultimi anni ha preso la sua forma attuale.

La Bacardi da una lato e la Pernod Ricard e il governo cubano dall’altro si sono contesi per anni la possibilità di usare il marchio Havana Club negli Stati Uniti. Ed ha vinto Bacardi. La Corte Suprema Usa, sì, proprio la Corte Suprema, ha posto fine alla disputa negando il 14 maggio alla compagnia Cubaexport la possibilità di difendere il suo diritto di iscrizione del marchio negli Stati Uniti.
Quindi negli Stati Uniti, e solo negli Stati Uniti, con il marchio Havana Club si continuerà a vendere un rum prodotto a Porto Rico dalla Bacardi. Mentre nel resto del mondo con il marchio Havana Club si vende un rum prodotto a Cuba e distribuito dalla multinazionale francese Pernod Ricard.
Prima della nazionalizzazione la Bacardi aveva già trasferito marchio e impianti all’estero quindi riuscì a sopravvivere fuori da Cuba ed oggi è una grande multinazionale con sede a Nassau, nelle Bermuda.
Ma Cuba continua ad essere centrale nell’immaginario collettivo dei consumatori di rum, e sotto il marchio, fortissimo, di Havana Club, in origine di proprietà della famiglia Arechabala e poi nazionalizzato, a Cuba si è continuato a produrre rum che a partire da un accordo del 1993, è distribuito dalla multinazionale francese Pernod-Ricard.

Nel 1996 la Bacardi mise in vendita negli Stati Uniti una marca Havana Club prodotta prima nelle Bahamas e poi a Porto Rico. La Pernod-Ricard rispose con una denuncia sostenendo che l’indicazione Havana Club confondeva i consumatori inducendoli a credere che il rum fosse prodotto, appunto, all’Havana. La Bacardi rispose che era solo un nome commerciale, non un’indicazione geografica, che certamente rinviava all’origine cubana della ditta, ma che sull’etichetta era chiaramente riportato il vero luogo di produzione. Così è iniziata la guerra legale a cui ha posto fine il 14 maggio scorso la sentenza della Corte Suprema. Come sempre quando si tratta di Cuba, ed in particolare di rum cubano, le considerazioni di ordine commerciale e legale si intrecciano con quelle di ordine politico. Alla base di tutto c’è ovviamente l’embargo che dura ormai da 50 anni degli Stati Uniti contro Cuba. E l’influenza che la Bacardi ha sulla politica degli Stati Uniti. Bacardí ha anche aiutato gli eredi in esilio della famiglia Arechabala a costituire in Liechtenstein la José Arechabala International, da cui ha acquistato i diritti di Havana Club nel 1997. Ed ha agito per far approvare una legge del 1998, detta “Sezione 211”, che nega il diritto di protezione intellettuale al marchio Havana Club cubano in territorio Usa, in quanto proveniente da espropriazione illegittima. Non è certo mia intenzione entrare nel merito di una vicenda cos’ complessa e che smuove simili interessi. Certo, la presenza di due rum diversi sotto lo stesso marchio Havana Club costituisce una situazione singolare e non facile da comprendere.

 

Marco Pierini

Showrum 2019

Il prossimo 13 e 14 ottobre si terrà a Roma la settima edizione di ShowRum, il primo festival del rum a comparire sul mercato italiano. Il festival è nato da un’idea di Leonardo Pinto – conosciuto membro della rum community e uno dei primi in Italia ad occuparsi di rum – il quale presenta il suo evento come “il più importante evento italiano dedicato ai distillati di canna da zucchero, il rum e la cachaça. Fra centinaia di etichette in degustazione, decine di masterclass, seminari, incontri, ed i nuovi spazi dedicati al mondo dei cocktail, il festival rappresenta l’occasione perfetta per accrescere la propria conoscenza in fatto di rum o scoprire, per la prima volta, il gusto autentico dei Caraibi.”

L’evento si terrà nell’A.Roma Lifestyle Hotel, in Via Giorgio Zoega 59.

Per chi volesse saperne di più:

https://www.showrum.it

Claudio Pierini