L’Invenzione dell’Acquavite: un Primato Italiano

In Occidente, il primo distillato ad essere prodotto e consumato su larga scala è stato l’ Aqua Vitae, detta anche Ardens, ottenuta dalla distillazione del vino; tutti i moderni distillati, liquori, amari ecc. discendono da questa prima, grande “invenzione”. Ed è un’invenzione italiana: un Primato di cui andare orgogliosi.

C’è chi dice che già gli antichi Egizi distillavano l’alcol, altri i Sumeri e altri ancora questa o quella popolazione delle steppe, ma nessuno ha portato prove affidabili. Inoltre, se nel lontano passato qualcuno è riuscito a distillare l’alcol, come è possibile che una conoscenza tanto preziosa sia andata perduta? Perché una cosa è certa, i Greci ed i Romani dell’Età Classica non bevevano distillati. Bevevano il vino, la birra e conoscevano altre bevande fermentate, ma non forti bevande alcoliche distillate.

Ad Alessandria d’Egitto, attorno II° secolo D.C., troviamo il primo disegno di un vero apparato per la distillazione. Poi arrivarono gli Arabi che dedicarono secoli di ricerche e studi alla conoscenza della materia ed anche alla distillazione. Alessandrini e Arabi distillarono l’alcol? Forse sì, ma la mancanza di prove certe e di uno sviluppo successivo mi fa pensare che l’alcol sia rimasto – nella migliore delle ipotesi – un liquido raro, usato solo per scopi scientifici o alchemici.

Il vero cammino dell’alcol comincia invece in Italia, nella famosa Scuola Medica Salernitana. La più antica descrizione su come distillare alcol dal vino è in un manoscritto della “Mappae Clavicula” scritto intorno al 1150 da un non ben identificato “Maestro di Salerno”. Si tratta di un crittogramma:

“Da una mistura di puro e forte xkmk con tre qbsuf di tbmkt, scaldata negli appositi recipienti, si ricava un’acqua che se accesa brucia, ma lasciando incombusto il materiale sottostante”.

Dove xkmk, qbsuf, e tbmkt sono puzzle formati dalla sostituzione delle lettere con quelle che le seguono nell’alfabeto latino: XKNK = VINI; QBSUF = PARTE;  TBMKT = SALIS. La “n” nella parola XKNK è verosimilmente un errore per “o”.

Quindi il testo decifrato è: “Da una mistura di puro e forte vino con tre parti di sale, scaldata negli appositi recipienti, si ricava un’acqua che se accesa brucia, ma lasciando incombusto il materiale sottostante”.

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A Salerno la nuova sostanza viene usata in medicina e comincia ad essere conosciuta ed usata sempre di più.

Spostiamoci adesso nell’Italia dei Comuni ed in particolare a Bologna, centro di cultura, scienza e alchimia. Oggi la parola ha una cattiva fama, ma nel Duecento l’alchimia era una cosa seria, un sapere pratico e attivo, ben differente dalle astratte e teoriche discussione di molti dotti dell’epoca. E, fra le tante sostanze prodotte dagli alchimisti, c’è uno strano liquido incolore come l’acqua, ma che brucia come il fuoco, presto chiamato aqua, l’alcol. In seguito, qualcuno lo chiamò “Aqua Vitae“, Acqua della vita, e il nome è rimasto. Alla metà del Duecento la produzione di alcol in Italia centro-settentrionale è una pratica acquisita, ma ancora solo in ambito medico.

Poi arriva Taddeo Alderotti, nato a Firenze, ma attivo a Bologna dopo il 1260. Era un medico molto famoso, Papi e Signori richiedevano le sue cure e le pagavano a caro prezzo. La sua opera più famosa è un libro di ricette e consigli medici, Consilia, in cui dedica ampio spazio al modo di fare l’acquavite ed al suo uso medico, con un grande entusiasmo per le sue virtù: cura ogni tipo di febbre, corregge “l’alito fetido”, ritarda la calvizie, cura il mal caduco, gli occhi, la paralisi degli arti, i calcoli dei reni e della vescica, la sordità, il mal di denti, la dissenteria, la sciatica e tanti altri. “E poi risana il vino guasto, se vi se ne mette un po’”. E come se non bastasse, l’acquavite conserva la giovinezza. Descrive anche come deve essere fatto l’apparato e tutto il processo per distillare il vino, con una serie di accorgimenti tecnici.

 

Alderotti contribuisce a far conoscere l’acquavite al grande pubblico dei lettori dell’epoca, è un vero propagandista del nuovo prodotto. Qualcuno capì la novità e si ingegnò a soddisfare questo nuovo bisogno dei consumatori.

Non accadde a Bologna, ma a Modena. Infatti sappiamo che già nel 1320 il borgomastro di una città tedesca invita i concittadini ad usare il vino distillato importato da Modena per difendersi dalla peste. Poco dopo, Ludovico il Bavaro scende in Italia per essere incoronato Imperatore. Al suo seguito c’è un medico, Hieronymus Burkhard, che a Modena si dedica a studiare la distillazione dell’acquavite e che nel 1351 riceve il permesso per aprire due Farmacie, con una patente imperiale che lo autorizza a distillare l’acquavite.

Ed ecco le tasse, incubo secolare di ogni distillatore: negli Statuti del Comune di Modena del 1487, ma riformati su quelli del 1327, si stabilisce una specifica tassa sull’esportazione di vino e acquavite, segno evidente della esistenza di una produzione ed esportazione significativa.

Come avviene il passaggio dell’acquavite da medicina a bevanda di piacere? Alderotti e gli altri medici prescrivono di spalmare l’acquavite sulle parti del corpo malate, ma soprattutto di berla regolarmente, ogni giorno, per curare tante malattie. Ma consigliano anche di berla per prevenire le malattie, mantenere sano il corpo e rinviare la vecchiaia. Bere acquavite diventò quindi per molti un’abitudine.

Il passaggio dal laboratorio del farmacista al tavolo della taverna è avvenuto, in Italia e ed altrove, dopo Alderotti e dopo Modena. Un Anonimo trecentesco già scrive: “E la sua bontà agisce non solo nel corpo, ma anche nell’anima: infatti fa dimenticare la tristezza e l’angoscia, provoca allegria e rinfranca l’intelletto quando si dedica alla ricerca di cose difficili e sottili, dà coraggio, aiuta a sentire meno il dolore e la fatica, ed ha molte altre proprietà di questo genere.”

 

Comunque, il primo trattato dedicato interamente all’acquavite è il Libreto de Aqua Ardente” scritto da Michele Savonarola poco prima del 1450. Savonarola descrive diversi tipi di acquavite e un consumo di piacere diffuso. Molti abusano dell’acquavite, scrive, ubriacandosi e questo non viene presentato come un avvenimento eccezionale, ma come una cattiva abitudine molto diffusa fra il volgo. Poi parla dell’esistenza di tanta acquavite di scarsa qualità che viene venduta in piazza ai cittadini meno abbienti e racconta anche di problemi legati alla qualità del prodotto ed all’onestà e correttezza dei produttori.

E’ quindi evidente che nella prima metà del Quattrocento in Italia esiste già una vera produzione commerciale su larga scala dell’acquavite. Una produzione non più in mano a medici e farmacisti, ma a veri imprenditori del settore e che è destinata al consumo di piacere di un pubblico con gusti e consumi differenziati.

La strada è ormai aperta per lo sviluppo della grande tradizione distillatoria e liquoristica italiana ed europea. Una strada che arriva diritto fino a noi.

Marco Pierini

PS Ho scritto questo articolo per l’evento Aperitivi&Co, che si è tenuto a Milano nel Maggio 2018. Per saperne di più visitate il sito http://www.bartender.it/

 

Per saperne di più:

AA.VV.   Grappa e Alchimia”   Centro Documentazione Grappa Luigi Bonollo 1999

Savonarola, M.  “I trattati in volgare della peste e dell’acqua ardente” editi da L. Belloni   1953

Alle origini della liquoristica italiana: l’Aqua Vitae Composita

Un tipo particolare di acquavite composta, che ebbe grande successo fra i più ricchi, era l’ Aurum potabile –  “Oro potabile” – cioè oro in forma di barrette, lamine o limatura  che si manteneva in infusione nel vino fino a distillare il tutto più volte, pensando (illudendosi) in questo modo di estrarre tutte le virtù medicinali della preziosa sostanza e trasferirle al liquore. Un rimedio, in definitiva, molto potente: l’obiettivo era quello di preservare il corpo dalla corruzione del tempo.
Con gli anni l’uso di bere acquavite si diffonde e il primo vero e proprio trattato ad essa dedicato è plausibilmente quello che il medico ferrarese Michele Savonarola – avo del più noto Fra’ Girolamo – scrisse poco prima del 1450: il “Libreto de aqua ardente”.

Savonarola spiega come, per fare della buona acquavite, ci vogliano vini nuovi, buoni, forti e quindi costosi. Spesso però la sostanza non manifesta i suoi benefici effetti poiché i proprietari e gestori dei terreni la producono con i loro vini peggiori o deteriorati:  “Se po comprehendere che l’aqua ardente non ha molte vuolte li soy effecti e le vertude proprie. La caxone de questo a la materia, zoè al vino, se de’ attribuire; ma più a li rectori e offittiali de le terre, li quali, per le proprie fazende, ne la salute e sanitate di soy citadini negligenti sonno, che in tanta divina cossa non ànno cura, odendo che de li vini marzi e aquadi da li artifici facta è l’aqua ardente.”

Savonarola descrive l’impegno e la complessità tecnica necessaria per una buona acquavite, mentre purtroppo al mercato il prodotto si vende ai poveri a basso prezzo: “Ma penssa ti e considera, che, e qualle, e chomo facta è l’aqua ardente, la qualle in piaza se vende a le povere e miserabelle persone”. A volte qualcuno ne beve troppa e si ubriaca: Savonarola consiglia moderazione, ma non è chiaro quale sia la quantità giusta, forse una “onza” (circa 30 grammi) al giorno, ma non lesina racconti su chi ne ha bevute tre – quattro al giorno per molti anni: a suo dire… senza danni, anzi vivendo a lungo.

Non mancano inoltre alcune parole, spese in uno specifico capitolo, riguardanti l’acquavite composta: “… la qualle composita è nominata, imperò che facta è con coniunctione d’altre cose”, il cui consumo eccessivo fa male non solo al corpo, ma anche “al cervello e a nervi fa grande nocimento, e l’omo perduxe al spasmo, e fa impacire.”

Nel Cinquecento si stampano ormai numerosi libri ed entrano in funzione molte distillerie, sparse un po’ in tutta Italia. Ogni corte ha la sua e si beve per il piacere, non più per curarsi. Aumenta anche il numero e la varietà dei prodotti: l’acquavite composta lascia il posto a veri e propri “liquori” di ogni genere. A Firenze, la Fonderia Medicea di Palazzo Pitti è all’avanguardia e – quando Caterina de’ Medici nel 1533 sposa a Parigi il futuro re Enrico II – i francesi scoprono le virtù dei liquori fiorentini, già all’epoca serviti alla fine del pasto, in particolare del “rosoglio”. E con la lunga reggenza di Caterina si diffonde l’uso di bere liquori, per lo più importati.
D’altronde… “ La consommation générale est le fait d’un commerce dans lequel les Hollandais ont tenu una grande place. La consommation plus raffinée est le fait des Italiens essentielments.”

Marco Pierini

PS: ho scritto questo articolo in occasione dell’evento Aperitivi&Co Experience che si è tenuto a Milano nel marzo 2018.

Alle Origini della Liquoristica Italiana: un Viaggio che parte da Salerno

Racconta la leggenda che a Salerno, nell’Alto Medioevo, si incontrarono quattro maestri della medicina: Helinus, Adela, Pontus e Salernus – un ebreo, un arabo, un greco e un salernitano: insieme fondarono la  Scuola Medica Salernitana, la prima grande istituzione medica dell’Occidente medievale. Anche la vicina abbazia benedettina di Montecassino dette il suo contributo e nel IX secolo la Scuola era già famosa: da tutta Europa i malati accorrevano a Salerno per curarsi… e i medici per imparare.

È proprio a Salerno che, attorno al XII secolo, inizia il cammino dell’alcol in Occidente. Alcol che, probabilmente, era già stato scoperto distillando il vino dagli alchimisti arabi e alessandrini: erano però rimaste esperienze isolate, chiuse nei laboratori degli alchimisti, spesso segrete. A Salerno, invece, la nuova sostanza viene usata in medicina: sia pur lentamente ed in circoli ristretti, l’alcol comincia pian piano a diffondersi.

Il vero salto verso la fama, però, arriva attorno al Duecento; un po’ più a Nord, nell’Italia dei Comuni, in particolare a Bologna. I progressi tecnici permettono un’efficace raccolta /  condensazione dei vapori dell’alcol etilico e una nuova mentalità concreta e razionale sa farne buon uso. A Bologna, all’ombra dell’Università, medici, alchimisti e filosofi fanno esperimenti con questa curiosa sostanza, incolore come l’acqua, ma che brucia, risana e conserva: un’ acqua meravigliosa. E le raccontano nei loro libri. Per un po’ non sanno bene come chiamarla, poi un nome appare: Aqua Vitae, Acqua della Vita, a volte detta anche Ardens, ardente.

Aqua Vitae è il nome con cui si diffonde e da cui derivano il francese eau de vie, il tedesco aquavit, lo scandinavo akvavit ed anche il gaelico uisgebeatha, poi diventato whisky. E fin dai primi passi, si distinguono due tipi fondamentali: aqua vitae simplex fatta di solo vino distillato e aqua vitae composita dove al vino distillato vengono aggiunte piante, radici ed erbe  medicinali di ogni tipo.

Vediamo cosa scrive il grande medico Taddeo Alderotti attorno al 1280:  “Di acquavite, ce n’è una semplice e una composta. La semplice è quella che, senza mescolanza di alcuna cosa, semplicemente si estrae dal vino ed è chiamata anima del vino. Assume le proprietà di tutte le erbe – eccettuate soltanto le viole – fiori, radici e spezie, se rimangono per tre ore in essa. L’acquavite composta si combina con spezie, radici, fiori ed erbe, secondo l’esigenza e la convenienza di ciascuna malattia. La sua dose, in bevanda, sia da una dramma fino a due. E la dose si accresca e si diminuisca secondo il vigore del paziente.”  (una dramma bolognese dell’epoca era circa 3,75 grammi).

È una cura efficace contro quasi tutte le malattie del corpo, ma non solo. “Contro la malinconia e la tristezza: ogni mattina mezzo cucchiaio, a stomaco digiuno, preso con un bicchiere di vino profumato, rallegra, rende ilare e giocondo … Con l’acqua predetta, fatta così, il paziente corregga il suo vino, ogni quattro giorni. E dell’acqua ardente ne beva ogni giorno un cucchiaio, mattina e sera, continuamente fino ad un anno.”. Così ci ricorda Alderotti, specificando come, inoltre, sia in grado di migliorare il vino poco buono o deteriorato.

Se dunque l’aqua vitae simplex è l’antenata dei moderni distillati quali grappa, brandy, whisky, ecc. possiamo a tutti gli effetti dire che l’aqua vitae composita è la madre di liquori, amari, aperitivi, digestivi e corroboranti.

Le ricette erano numerose, perché la farmacopea medievale si basava moltissimo sulle piante, le erbe e le radici del mondo naturale, ma i modi per produrla erano basicamente tre. Nel primo caso si univano direttamente le erbe al vino, distillando poi l’insieme. In un secondo, prima si distillava il vino da solo e poi vi si mettevano in infusione le erbe desiderate. Infine, in un terzo caso l’aqua vitae simplex e le erbe venivano messe insieme nell’alambicco, distillando nuovamente.
Inizialmente l’acquavite composta è un medicinale piuttosto caro: i medici prescrivono di berla (e/o di spalmarla) sulle parti malate. Poi, grazie anche all’impegno degli alchimisti francescani, si fa strada l’idea che la novità debba essere alla portata di tutti, un toccasana per mantenere in salute e “rinviare” la vecchiaia. Si beve soprattutto acquavite composta perché le erbe medicinali potenziano, si crede, gli effetti farmacologici (oltre ad avere un gusto più gradevole).
Così si giunge al 1348, quando compare la Peste Nera – uno dei più grandi flagelli della storia – e, in seguito, altre epidemie minori, ma comunque terribili, continuano ad imperversare in tutta Europa: i medici, quasi impotenti, consigliano alla popolazione terrorizzata di bere acquavite ogni giorno, per prevenire la malattia oltre che per curarla.

Passo passo, di questa medicina si cominciano ad apprezzare anche altre virtù, fino a giungere veramente molto vicini ad una tipologia di consumo di puro piacere: “La sua bontà agisce non solo nel corpo, ma anche nell’anima: infatti fa dimenticare la tristezza e l’angoscia, provoca allegria e rinfranca l’intelletto quando si dedica alla ricerca di cose difficili e sottili, dà coraggio, aiuta a sentire meno il dolore e la fatica, ed ha molte altre proprietà di questo genere.”

Marco Pierini

PS: ho scritto questo articolo in occasione dell’evento Aperitivi&Co Experience che si è tenuto a Milano nel marzo 2018.